Un’intervista al Regista.
Eugenio Melloni, regista bolognese, coordina il progetto di ricerca sperimentale “Memofilm, a memoria di uomo” sull’uso del cinema come terapia di supporto ai malati di demenza e cura un Laboratorio Cinema presso la Sezione Femminile del Carcere di Bologna
INTERVISTA – Eugenio Melloni, regista bolognese diplomato in regia teatrale, non ha alle spalle soltanto una lunga esperienza come autore e collaboratore a svariati progetti teatrali e cinematografici (in qualità di sceneggiatore ha lavorato, tra gli altri, anche con Lucio Lunerti, Stefano Incerti, Wim Wenders): la sua sensibilità umana e artistica lo ha condotto, a partire dal 2007, a coordinare – per conto della Cineteca di Bologna, insieme all’ASP Città di Bologna, il progetto di ricerca sperimentale Memofilm, a memoria di uomo, sull’uso del cinema come terapia di supporto ai malati di demenza, avviato insieme a Giuseppe Bertolucci. Per Mimesis edizioni, nel gennaio 2014, è uscito un saggio collettivo sui primi risultati scientifici della ricerca in corso, dal titolo Memofilm, la creatività contro l’Alzheimer.
Da novembre 2015 Melloni cura un Laboratorio Cinema presso la Sezione Femminile del Carcere di Bologna, un’esperienza da cui è nato un lungometraggio che racconta senza retorica, con sincerità, emozione, ma senza allinearsi ai tradizionali film sul mondo del carcere la condizione umana all’interno di un contesto doloroso e complesso.
Sezione femminile è una pellicola originale, lontana sia dal documentario propriamente detto sia dall’opera di pura finzione, che sta riscuotendo, dopo le prime presentazioni a Bologna e a Roma lo scorso mese di dicembre, molti riscontri positivi sia dal pubblico che dai critici (compreso il decano della critica cinematografica italiana, Adriano Aprà).
Abbiamo domandato ad Eugenio Melloni di raccontarci la sua esperienza del film e quella del laboratorio di cinema in carcere da cui è nata.
Com’è ti è venuta l’idea di dedicare un lungometraggio alla realtà carceraria femminile? Non è stata una mia idea. Un’associazione che si occupa di medicina di genere Meg, nell’ambito di un progetto del Comune di Bologna, me l’ha proposto. Allora pensavo che di film sul carcere se ne facessero anche troppi. E che raccontare la sofferenza di chi aveva procurato sofferenza ad altri non fosse poi così interessante. E parecchio complicato. Quando ho chiesto perché farlo, mi è stato risposto che le donne in quanto tali rischiano di pagare un supplemento di pena in carceri strutturati per i maschi. Le donne del resto costituiscono circa il 10 per cento della popolazione carceraria. Allora ho accettato, ma solo come possibile conclusione di un percorso laboratoriale.
In cosa si distingue il tuo film rispetto alle opere – di finzione o documentarie – prodotte in passato sul tema? Che documenta senza essere un documentario e che emoziona senza essere una fiction tipica. Non racconta la condizione carceraria a mo’ di inchiesta o altro. E’ fuori norma come è stato scritto da altri.
Sezione femminile nasce anche da un laboratorio biennale da te condotto in carcere, a diretto contatto con le detenute, la loro durissima esperienza, le loro memorie di vita. In che forme si è svolto il laboratorio e qual’è stato il tuo vissuto personale in questo contesto? C’è voluto qualche mese di formazione e discussione prima che le detenute si potessero misurare con la propria esperienza, per poterla raccontare secondo forme narrative proprie del cinema dove la realtà è sempre trasfigurata. Il cinema è un gioco di specchi, obbliga alla riflessione che può essere più o meno profonda. Superata questa fase, ne è iniziata un’altra più creativa legata al recupero dell’immaginazione. Il film, in effetti, parla indirettamente anche di un percorso rieducativo con i media.
Qual è il “messaggio” del film e quale immagine restituisce della condizione detentiva, non soltanto femminile? Uso le parole di una spettatrice, anche se sono estrapolate da un commento: “restituisce un’immagine di carcere diversa da quella che normalmente si ha, più aperta e più positiva. La gente può farcela se viene aiutata”. Mettendo da parte il buonismo, il carcere ci sarà sempre e ci sono cittadini al posto nostro che lavorano per farlo funzionare secondo i dettami della legge, con tutto un sistema di controlli tipici di un ordinamento democratico. Il fatto che alcune agenti abbiano deciso di dare un contributo al film su un tema doloroso, dice molto sul fatto che la dimensione umana è inevitabilmente presente in quei luoghi.
Qual’è stata la reazione delle donne che hanno frequentato il tuo laboratorio a contatto con il mezzo cinematografico? La fascinazione del cinema è sempre più che mai viva. Tema complesso. Averlo, però, accettato come viatico di riflessione ha permesso a loro di conoscerlo in modo più disincantato.
La creatività, l’arte in genere, possono – a tuo parere – supportare chi si trova a vivere l’esperienza carceraria? Certamente, se non è strumentale a chi la porta dentro. Per ciò che riguarda il nostro laboratorio, una delle condizioni era quella di non pensare di vendere la propria condizione di detenute all’esterno, premessa del resto perché il percorso rieducativo fosse il più possibile autentico, sincero.
Quali sono le prossime tappe di presentazione del film? R2 production (www.r2production.it ), che ha prodotto il film senza contributi pubblici o aiuti di grossi media, ha deciso anche di distribuirlo, accompagnandolo per mano secondo un progetto che prevede anche la proiezione dentro le carceri, un dentro e fuori al carcere. Contando sulla qualità e originalità del film, che è uscito in prima al cinema a Bologna a fine novembre, poi a Roma a dicembre con l’Associazione Fuorinorma e all’Università Roma3, con riscontri più che positivi. E voglia di parlarne. Proseguirà nei cinema dell’Emilia Romagna e mi auguro anche in Piemonte e ad Alessandria.
Il ricordo del periodo di lavorazione che più è rimasto nella tua memoria? I momenti in realtà sono stati diversi, ma cito il montaggio, la conferma che non avevamo lavorato invano, che potevamo offrire al pubblico uno sguardo inedito su un tema difficile come le carceri e sulle donne rinchiuse in esse.
Barbara Rossi – redazione@alessandrianews.it 19/01/2019